Thursday, 29 July 2010
Wednesday, 28 July 2010
Zimbabwe ‘mistreating’ migrants
Zimbabwe 'mistreating' migrants
Zimbabwe's president Robert Mugabe. Photo/ReutersBy KITSEPILE NYATHI, NATION CorrespondentPosted Tuesday, July 27 2010 at 20:09Asylum seekers from several African countries seeking refugee in Zimbabwe have complained that they are being thrown into jails with hardened criminals.The prisoners from countries such as Zambia, Somalia, Ethiopia and Rwanda were last week given an opportunity to air their views at one of Harare's most notorious prisons during a familiarisation tour by the Deputy Minister of Justice, Obert Gutu.A refugee who did not give his name but comes from the Democratic Republic of Congo said he was arrested two years ago while on his way to the United Nations High Commission for Refugees (UNCHR) and has been languishing in jail ever since."The first time I went to the courts there was a language barrier since in DRC we speak French."I could not understand a word of English and I was told to come back some other time," he said.When he appeared in court for the second time he was fined US$100 for violating the country's immigration laws but he remains in jail even after a Good Samaritan paid the fine on his behalf."I am running away from war and wish to be taken to the refugee camp, I have no relatives in Zimbabwe and I have no money. I wonder why I am being kept here," he said.The prison officials could not give an indication of the number of asylum seekers in jail but Gutu said he was aware that the immigration department was handling some cases. Other prisoners who spoke were from Zambia, Somalia and Ethiopia who said they did not understand why they were being kept in jail instead of refugee camps.UNCHR representative to Zimbabwe Marcelin Hepie said recently they handled a case of six Somalis who have since been released. "We do handle similar cases during our routine visits," he said. "The largest group was that of six Somalis who have since been released."Although according to the UNCHR figures released last month, Zimbabweans topped the list of people seeking asylum last year, hundreds of refugees from across Africa arrived in the impoverished country
Saturday, 10 July 2010
Arbeit macht frei 2.0 - In Libia..............
Arbeit macht frei 2.0 - In Libia ancora ricatti e imbrogli contro gli eritrei
di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
Mentre i mezzi di informazione italiani, con l’eccezione dell’Unità, di Raitre e di pochi altri, hanno steso una cortina di silenzio sulla sorte degli oltre 200 eritrei detenuti e abusati nel carcere di Brak, in Libia, una agenzia AFP chiarisce meglio la portata dell’accordo, un vero e proprio “patto leonino” che il governo libico, con la mediazione dell’OIM, avrebbe imposto ad una parte dei detenuti, mentre circa un terzo sembra che ancora si rifiuti di sottoscrivere l’”accordo di regolarizzazione”, che secondo le autorità di quel paese “ li sottrarrebbe alle bande di criminali” trafficanti ovviamente, e conterrebbe addirittura”misure per l’accoglienza e l’integrazione”.
E’ proprio il caso di ripetere, purtroppo, “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi. Secondo l’accordo imposto dal governo libico ad una parte degli Eritrei, che probabilmente avrebbe firmato qualsiasi pezzo di carta pur di lasciare il carcere militare di Brak nel quale vengono abusati da giorni,”l’ambasciata eritrea in Libia consegnerà dei documenti, e dunque identificherà, i detenuti” al fine di permettere “a quanti lo desiderano di insediarsi in Libia”. L’insediamento dovrebbe avvenire non certo per libera scelta delle persone ma esclusivamente all’interno di uno dei campi di lavoro socialmente utile che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime. Ma la sorte degli eritrei dispersi in questi campi ed affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici appare segnata, ed una volta considerati come migranti economici rimane ancora assai alto il rischio che alla prima occasione vengano espulsi nel paese d’origine, dove ad attenderli troverebbero carcere e torture. Il regime eritreo ha buona memoria.
E’ rimasto in ombra in questa soluzione il ruolo dell’Italia, che pure era stata sollecitata dal Commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa ad un “chiarimento” con la Libia sulla vicenda della deportazione degli eritrei da Misurata a Brak.. Come sono rimasti inascoltati i numerosi appelli per un ritrasferimento (resettlement) dei profughi dalla Libia in Italia, come già avvenuto negli anni passati, seppure in poche decine di casi.
Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato, sempre secondo l’AFP, che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche “per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali”. Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione sotto la sorveglianza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un ruolo di garanzia che cessa quando un migrante non è riconosciuto come rifugiato ma come un comune migrante economico, magari da fare rientrare nel paese di origine alla prima occasione. La soluzione adottata dal governo libico mette “fuori gioco” ancora una volta l’UNHCR che peraltro in Libia ha sempre avuto una limitata capacità di azione.
La stessa agenzia riferisce poi la vera ragione della chiusura della piccola delegazione dell’UNHCR a Tripoli, che aveva riconosciuto lo status di rifugiato a 8.951 persone e ne aveva riconosciuto altre 3.689 come richiedenti asilo. Per il governo libico si trattava invece di “immigrati clandestini”, che “in nessun modo potevano essere considerati come rifugiati o richiedenti asilo” . Ecco perché all’inizio di giugno l’ufficio dell’UNHCR a Tripoli veniva chiuso, proprio perché, a detta delle autorità libiche, avrebbe posto in essere “attività illegali”. Adesso sembrerebbe che sia stata consentita la riapertura dell’ufficio, ma con un mandato limitato soltanto ai casi già trattati in passato. E poi, se tutti i potenziali richiedenti asilo sono considerati come migranti economici, che senso può avere la presenza dell’UNHCR a Tripoli? Una domanda alla quale dovrebbe fornire risposta anche l’Ufficio centrale dell’UNHCR a Ginevra, anche perché la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra.
E’ caduto intanto nel vuoto l’appello del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa Hammarberg che sollecitava l’Italia i ministri Maroni e Frattini a chiarire la situazione con la Libia ed a trasmettere informazioni allo stesso Consiglio d’Europa in merito alla vicenda degli eritrei arrestati in Libia, anche alla luce dei numerosi report di agenzie internazionali che indicavano tra i deportati eritrei trasferiti a Brak ed a rischio di ulteriore deportazione nel loro paese di origine, anche migranti che lo scorso anno “avevano cercato di raggiungere l’Italia per cercare di ottenere uno status di protezione internazionale” ed “erano stati respinti in Libia senza avere la possibilità di inoltrare la relativa domanda”. Probabilmente, come ha detto lo stesso Gheddafi in diverse occasioni, in particolare nel suo viaggio a Roma lo scorso anno, anche Maroni risponderà adesso al Consiglio d’Europa quanto affermato da Berlusconi lo scorso anno, che in Libia non esistono richiedenti asilo, che si tratta solo di migranti irregolari, anzi “clandestini”, e che dunque non ci sono problemi di violazione di norme internazionali.
Questi i fatti, e le menzogne, come sta venendo fuori dalle numerose testimonianze che smentiscono Maroni e confermano che tra gli eritrei deportati a Brak ve ne sono parecchie decine che lo scorso anno l’Italia ha intercettato in acque internazionali, mentre cercavano di raggiungere l’Italia per chiedere asilo, e che ha riconsegnato alle motovedette italo-libiche, che li hanno poi ricondotti nei centri di detenzione come quello di Misurata. Persone che se avessero raggiunto un qualunque paese europeo avrebbero avrebbero avuto diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale.
Ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave che i comunicati ufficiali nascondono. La circostanza che la maggior parte degli eritrei trasferiti da Misurata a Brak si stia rivolgendo ( meglio, sia stata costretta con la forza a rivolgersi) al proprio consolato per il rilascio di documenti identificativi, e che questi documenti permetteranno l’inserimento in una “comune di lavoro”, come quelle presenti in Libia, uno degli ultimi baluardi evidentemente del socialismo ( e infatti in quel paese è vietata la proprietà privata della terra), comporta alcune conseguenze assai gravi, che alleggeriscono le responsabilità dei governi e costituiscono la premessa per la dispersione dei duecento rifugiati eritrei, declassati adesso a semplici migranti economici, che il “magnanime” governo libico accetterebbe di “regolarizzare”.
La identificazione di queste persone da parte del governo eritreo le rende ricattabili a vita, anche per le “attenzioni” che questo governo riserva a madri, mogli, figlie e sorelle di quanti tentano la via della fuga all’estero in cerca di asilo. Inoltre avere accettato, meglio essere stati costretti dai libici, con le violenze subite da giorni, a sottoscrivere un “accordo di integrazione” fissa a tempo indeterminato gli eritrei nella comune di lavoro nella quale verranno assegnati,ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello status di rifugiato, sia per i ricatti che potrebbero subire sui loro parenti in Eritrea, sia soprattutto perché una volta qualificati come migranti economici, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi, alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell’UNHCR, lo status di protezione internazionale.
Un trabocchetto in uso in Italia fino a qualche anno fa, quando ancora non era entrata in vigore la normativa comunitaria attuata con il decreto legislativo n.25 del 2008, consisteva nel chiedere e verbalizzare alle persone appena sbarcate se volessero lavorare in Italia. Tutti naturalmente rispondevano affermativamente, e tanto bastava alle forze di polizia per respingere immediatamente e ritenere infondata la domanda di protezione internazionale, con la successiva adozione di provvedimenti di espulsione o di “respingimento differito”. Un “trucchetto” che il d.lgs n.25 del 2008 ha in qualche modo ridimensionato, togliendo alla polizia di frontiera qualunque potere discrezionale nell’esame della domanda di asilo che adesso è di pertinenza esclusiva della competente commissione territoriale. Ma evidentemente la “formazione congiunta” italo-libica produce i suoi frutti ed ecco che adesso la polizia libica, e il governo che la dirige, hanno imparato lo stesso “trucchetto” che anni fa si praticava in Italia, e in certi casi, come alle frontiere portuali dell’Adriatico, si continua a praticare ancora oggi per impedire ai potenziali richiedenti asilo l’accesso alla procedura.
Per negare tutela e riconoscimento ai potenziali richiedenti asilo basta considerarli e trattarli come “migranti economici”, e dunque “clandestini”, se tentano di accedere al territorio senza i necessari documenti di ingresso e soggiorno. Quello che prima si faceva in Italia, a Lampedusa, adesso si fa in Libia, con l’aggravante che le persone vengono trattenute in condizioni disumane, esposti a continui abusi, cosa che capitava e capita anche in Italia, ma certamente non ai livelli di “raffinatezza” della polizia libica. La scelta di passare per migranti economici, e dunque di “regolarizzarsi” per andare a lavorare come schiavi, potrebbe dunque apparire per gli eritrei di Brak l’unica via per porre fine a giorni interminabili di torture e soprusi di ogni genere. E chissà che fine faranno quelli che non firmeranno questi “accordi di integrazione”, e i tanti che sono stati feriti e che vengono ancora picchiati se solo chiedono di essere curati.
L’accordo di “integrazione” e dunque la “regolarizzazione” forzata, con l’avvio degli eritrei ai “campi di lavoro socialmente utile”, ha altri importanti risvolti che certo faranno dormire sonni più tranquilli ai nostri ministri che da anni negano la presenza in Libia di richiedenti asilo e giustificano anche in questo modo i respingimenti collettivi in acque internazionali, praticati con tanto successo, prima dalle nostre unità navali, in particolare dalla Guardia di finanza, ed adesso subappaltati ai mezzi navali donati ai libici. I quali non hanno certo problemi di doversi adeguare agli scomodi standard dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani, e alla Convenzione di Ginevra, soprattutto per quanto concerne il divieto di respingimento (refoulement) affermato dall’art.33 della stessa Convenzione. E infatti, se di migranti economici si trattava, e dunque di irregolari, o di “clandestini”,che magari avrebbero attentato alla “sicurezza” degli italiani, anche nel caso di somali ed eritrei, come di nigeriani o togolesi, ben potevano giustificarsi sia le retate a terra che la polizia di Gheddafi ha intensificato proprio a partire dagli accordi con l’Italia, quanto i respingimenti collettivi in acque internazionali, senza alcuna identificazione, vietati dall’art.4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’auomo e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, documenti che evidentemente sono carta straccia non solo per la Libia ma anche per l’Italia.
Chiediamo ancora una volta che la Corte Europea dei diritti dell’uomo pronunci finalmente la sua sentenza per i respingimenti collettivi in Libia praticati il 6 e 7 maggio del 2009 dalla nave Bovienzo, altrimenti se passerà ancora del tempo, dopo fatti come la deportazione da Misurata, dei ricorrenti non ne resterà più traccia.
Attendiamo adesso con angoscia crescente altre notizie sulla sorte dei profughi eritrei, anche dopo la loro “liberazione”, magari per conoscere le tappe della loro “integrazione” in Libia. E vorremmo anche avere notizie al più presto sulla sorte dei numerosi feriti di Brak e delle donne e dei bambini rimasti a Misurata, come delle migliaia di migranti che la Libia continua a trattenere nei propri centri di detenzione, ancora inaccessibili, a parte qualche “visita guidata”, usata come al solito per ingannare l’opinione pubblica internazionale, o almeno quanti si accontentano delle liturgie sulla sicurezza recitate dai ministri sulla pelle di persone esposte giorno per giorno a detenzione illegale e ogni sorta di trattamenti inumani o degradanti.
Vorremmo anche che l’OIM e l’UNHCR chiarissero il senso della loro attuale presenza in Libia, magari facendo sapere quali garanzie sono previste perchè non venga coartata la scelta verso i cd.”rimpatri volontari” e quale sorte attende coloro che ancora si trovano in quel paese e sarebbero nelle condizioni di fare valere il diritto di asilo o un altro status di protezione internazionale in un qualunque paese che aderisca, a differenza della Libia, alla Convenzione di Ginevra.
http://www.meltingpot.org/articolo15697.html
Tuesday, 6 July 2010
I volti della diaspora africana in Italia
Migranti, i volti della diaspora africana in Italia
Una comunità eterogenea e dinamica che si sta strutturando nei settori dell'economia, della cultura e della politica del nostro Paese. E che spesso si scontra con lo scoglio di un'integrazione difficile se non impossibile.
Gli immigrati in Italia sono il 7 per cento della popolazione: 4,3 milioni su 60,2. La diaspora africana conta per il 20 per cento con poco più di 870mila unità, di cui 600mila dal Maghreb. Dell'Africa subsahariana le comunità più numerose sono la senegalese (67mila) e la nigeriana (44mila). Ma non solo numeri. Sono le tante Afriche: a tutti gli effetti rappresentanze in Italia di almeno 26 dei 53 Stati indipendenti, oltre al Territorio del Sahara occidentale. Per la mentalità europea, tormentata dalla necessità di ricondurre tutto all'unità, è come leggere un libro di storia, di cultura, di costume attraverso la lente di un caleidoscopio. Il risultato è un dramma che si riflette nella cronaca quotidiana di un processo di integrazione talmente ricco e dinamico, che coglie tutti impreparati. Indipendentemente dalla buona fede. Eppure questa comunità così eterogenea si sta strutturando nei settori dell'economia, della cultura e della politica del nostro Paese.
Imprenditoria etnica
Secondo l'Organizazzione internazionale delle Migrazioni (Oim), gli immigrati titolari d'impresa sono 165.114 e ogni anno aumentano. Edith Elise Jaomazava, nominata 'Imprenditore immigrato dell'Anno' dalla MoneyGram, la societa' di trasferimenti internazionali di denaro che ogni anno premia l'eccellenza dell'imprenditoria etnica. Di origine malgascia, Jaomazava, 40 anni, gestisce da sei anni 'SA.VA', un'azienda di spezie a Moncalieri, in provincia di Torino. L'impresa è in piena crescita: nel 2009 le vendite sono aumentate del 62,8 per cento. Oltre a sfidare la crisi in Italia Jaomazava, sposata con un italiano e madre di quattro figli, si fa promotrice dello sviluppo in Madagascar: la vaniglia e la cannella coltivate nel nord di quel Paese danno lavoro a 300 persone. "Le difficoltà sono state molte. Come fare a raccontarle?", scrive sul suo sito online, "la lingua e le leggi, la diffidenza dei clienti che si fermano al colore della pelle e non riescono a vedere la serieta' del lavoro. E poi la famiglia, che non si può certo trascurare". Edith Elise Jaomazava guarda lontano. Nel 2011 prevede di aprire una nuova sede in Madagascar per migliorare la logistica della filiera con l'Italia.
L'eritreo Hannea Gemal Ali è il re dell''halal'. Arrivato in Italia nel 2002, anche lui e' stato premiato dalla MoneyGram come 'Giovane imprenditore 2010'. E' titolare della 'Zula Italy Food', azienda che produce e commercializza generi alimentari 'halal', ossia cibi che rispettano i dettami della religione musulmana. Nel 2009 le vendite non solo non hanno risentito della crisi ma sono aumentate del 30%. L'azienda, che conta appena su tre dipendenti, lavora principalmente con l'Europa.
Francis Sietchiping, gastroenterologo camerunese trasferitosi a Milano, nel 2007 decide con alcuni amici di fondare una banca etica per gli africani, la Unicontinental Bank. E' la prima in Italia della diaspora africana. "L'idea", racconta Sietchiping, "nasce
dalla nostra volontà, da noi africani d'Italia. Abbiamo voluto creare uno strumento di microfinanza e per farlo dovevamo fondare una banca ad hoc. L'intuizione iniziale era facilitare i trasferimenti di valuta tra l'Italia e l'Africa, oggi costoso e anche rischioso". Sietchiping, calcolatrice alla mano, ha fatto un po' di conti:ogni anno gli africani della diaspora nel mondo spediscono a casa circa 48 miliardi di dollari. Una somma importante su cui prendono le provvigioni società come la Western Union o la MoneyGram. Il progetto di Sietchiping e' ancora in fase di 'start up'. "Stiamo selezionando 5.000 africani pronti ad acquistare azioni per un minimo di 600 euro. Speriamo di chiudere le prenotazioni entro giugno e di aprire la banca per la fine dell'anno", ha spiegato Ibrahima Camara, membro del comitato di garanzia. "Come diceva Thomas Sankara (ex presidente del Burkina Faso, ndr), dobbiamo produrre e consumare africano". Un progetto, dunque, di ispirazione panafricana: la banca etica sara' posseduta all'80 per cento da africani. I fondatori prevedono di aprire un'agenzia in Senegal e più sedi in Italia, con il placet della Banca d'Italia.
Diritti e doveri, la chiave dell'integrazione
"L'immigrato deve darsi da fare". Esordisce così la camerunese Marie-Paule Ngo Njeng, 45 anni, punto di riferimento per chiunque della diaspora voglia consigli. Assistente sociale, imprenditrice, e' diventata un'autorita' morale nelle comunità africane della provincia di Perugia. Lei si definisce una mediatrice tra le istituzioni italiane e i "fratelli e sorelle" africani. "Il mio obiettivo è aiutarli a trovare la loro strada nel loro nuovo Paese. Cerco di far capire loro che non devono aspettarsi niente dello Stato, perché nessuno li ha obbligati a venire in Italia. Mi sforzo di spiegare loro che devono assumersi le proprie responsabilità, che non ci sono soltanto diritti ma anche doveri". Per Marie-Paule Ngo Njeng il principio del 'politicamente corretto' non può diventare alibi dell'indolenza. Madre di due figli, lavora principalmente con i bambini nati in Italia e le donne immigrate. "I nostri figli sono persi tra due identita'", spiega Ngo Njeng, "I genitori vogliono che siano africani pure loro che non lo sono. Dall'altra parte c'e' l'Italia che non li riconosce ancora come completamente italiani". La sua voce e' ascoltata soprattutto dai giovani. Ha saputo utilizzare i loro stessi mezzi di comunicazione, come Facebook, per tenere i contatti:"Mi parlano dei loro dubbi, della loro confusione. E io gli spiego che questa è una ricchezza di cui approfittare e che forse diventeranno i futuri Obama d'Italia". Alle loro madri insegna come conquistare l'indipendenza materiale, condizione essenziale -dice- di una migliore integrazione. Le orienta verso centri di formazione dove studiare l'italiano e prendere una qualifica. "E' finito il tempo in cui la donna si definiva in quanto moglie di... Ora deve dire: 'io sono!'". Ngo Njeng c'è riuscita. Da tredici anni a Perugia gestisce un'impresa di pulizie e di servizi agli anziani e fa lavorare una quindicina di persone. Vorrebbe vedere gli africani più impegnati nella vita politica: "Sono assenti dal dibattuto sull'immigrazione. E' un peccato. Per farsi ascoltare bisogna impegnarsi politicamente e socialmente". Sdrammatizza l'idea di un'Italia razzista: "Se un uomo bianco bussa alla porta della mia vecchia zia rimasta al villaggio in Camerun, non credo che lei lo accolga a braccia aperte. Tutti in una misura o nell'altra sono sospettosi con il forestiero". Marie-Paule Ngo Njeng non si soprende per il suo successo in Italia: "Mio padre diceva: una buona cosa ha valore dappertutto".
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