Saturday 26 September 2009

La nostra Somalia era. La nostra Somalia forse sarà.

La nostra Somalia era. La nostra Somalia forse sarà.

La nostra Somalia era…
Era…cosa aggiungere di più?
Era, esisteva, respirava, amava.
Era qualcosa quindi. Come lo sono oggi il Senegal, la Francia, il Venezuela. Aveva strade, elettricità, acqua potabile, monumenti, scuole. Potevi danzare sulla sua architettura. Era come in quella canzone del rapper somalo-canadese K’naan che dice:

Mogadishu used to be
A place where the world would come to see
Jaziira, sugunto liida, wardhiigleey iyo Madiina
Hargeysa, Boosaaso, Baardheere iyo Berbera
My skin needs to feel the sand, the sun
I’m tired of the cold, god damn soobax
Poi un giorno è morta.
La data ufficiale Gennaio 1991 quando il vecchio dittatore Siad Barre (conosciuto da tutti come Boccagrande per la sua voracità) ha lasciato Mogadiscio per sempre.
Ma le date ufficiali non contano. La Morte celebrale risale a molto prima, al 1978 forse. È in quell’anno che il popolo somalo ha capito che Siad Barre dava nomi di sogno a degli incubi stratificati. Erano nomi che servivano a rendere la dittatura bella da guardare.
Il popolo frustrato cominciò in quella data a morire poco a poco.
La Somalia oggi dopo Boccagrande, dopo una guerra inspiegabile, è ufficialmente morta.
A Dir la verità oggi è improprio parlare di Somalia. Quando la si nomina dobbiamo avere tutti la consapevolezza che stiamo nominando qualcosa che non esiste più.
È morta. Ma ecco basta questa parola, morta, per decifrare l’inspiegabile rebus della Somalia?
Comunque una cosa è certa non è ancora risorta la disgraziata.
Nel frattempo è diventata un mostro, una anomalia, uno zombie. È morta, ma continua a vivere. Non c’è lo stato, ma il resto funziona…a volte anche molto bene. Basti pensare al business delle rimesse dei migranti che arrivano in quella nazione distrutta con la rapidità che ci si aspetterebbe per un invio du denaro a Londra o a Parigi.
Quindi la Somalia, per riassumere, è morta, è diventata un mostro e non si sa bene se la poveretta avrà una resurrezione.
Ma come può averla se tutti litigano? Ti dicono tutti, ricchi e poveri, che e’ questione di identità e non cedono. Ti dicono “sei proprio stupido se pensi che gli altri cederanno. La pace non esiste, dolcezza. Esiste solo questa cosa. Devi combattere dolcezza perché così è scritto”. E tutti a rifugiarsi sotto l’ombrello di una causa persa. Uno dice tu sei un venduto, l’altro dice sei un terrorista. I clan dicono io mi devo difendere, devo sopravvivere. I più grandi vogliono regnare, i più piccoli hanno paura di diventare come il dodo un animale estinto. Allora si accettano compromessi. Chi i soldi dell’Occidente, chi i soldi di un uomo dalla barba lunga e canuta nascosto in una grotta chissà dove. Si gioisce per un ferro che scarica pallottole. I clan più grandi li contano avidamente. Dicono “Abbiamo tanti ferri. Al tavolo della riconciliazione sarò io ad avere più potere”. I più piccoli si illudono che i 5 ferretti ottenuti con lacrime e sangue potranno permettere a qualcuno di loro di sedere a quell’ipotetico (molto ipotetico!) tavolo. Non sanno di avere perso tutti. Che quel tavolo a queste condizioni non si potrà mai fare. “Anch’io avrò la mia fetta di torta” gridano tutti. Purtroppo la torta non c’è. Come può esserci se ci sputano ogni giorno sopra? La torta è la nostra terra e non c’è più rispetto per la terra, per i suoi fiumi, per il suo mare, per la sue piante, per le sue bestie. Ma ecco parlare con i nostri concittadini a volte è impresa vana. Continuano a fare proclami e a cambiare faccia a seconda della situazione. Sono labowagile, esseri dalla doppia faccia. Un mese si sta sotto un ombrello, il mese dopo sotto un altro. Quello che un tempo era un paese grande quanto un sogno ora è diventato briciole di paure stratificate. Somaliland, Putland., Jubaaland, Nonsocheland! La verità è che siamo tutti di Zeroland. Alla fine dovremmo cambiare nome, non più somali, ma i fantasmi del paese dello zero, Io cittadino di Zeroland. Perché alla fine è quello che siamo: zero. Ci stiamo cancellando volontariamente. Certo il resto del mondo ci sta dando una mano, ci sono più trafficanti di armi in Somalia che in tutta Europa messa insieme. Poi si sa che la Somalia è ricettacolo di rifiuti tossici e traffici illeciti di vario tipo (non è un caso che si sia sviluppata la pirateria in Somalia. I pirati hanno fiuto, seguono l’odore di marcio dei traffici e del denaro sporco. E in Somalia ahimè c’è marcio a iosa) ma ecco nonostante gli altri, nonostante le armi, i rifiuti, la criminalità organizzata, nonostante tutto mi sento di dire (e me ne prendo la responsabilità) che quello che sta succedendo in Somalia è colpa nostra. Alpha Blondy in una sua nota canzone diceva:
j’insiste, je persiste et je signe les ennemis de l’afrique ce sont les africains,
Mi dispiace dirlo ma è così. Siamo noi gli artefici del nostro destino nefasto.
La delusione più grande io ce l’ho quando guardo la mia diaspora, sia quella di Roma sia quella di Minneapolis o Londra o Stoccolma. Si qui in questo argentato occidente la delusione è senza pari quando vedo che la vecchia diaspora, quella emigrata negli anni ’70, ’80, ’90 è guerrafondaia al pari dei tanti matti signori della guerra che ci sono laggiù. La democrazia non è entrata in circolo. E noi che ci speravamo! Miseria ladra! Ma sai in ognuno di noi c’è attaccata come fuliggine questa anarchia, questa babilonia. Ci scorre nelle vene e non riusciamo a contrastarla. Ci perseguita e noi siamo poca cosa davanti a lei. Perché non riusciamo a cambiare? Non siamo peggio di altri popoli. Sappiamo amare, conosciamo la lealtà, siamo ironici, crediamo in Dio. Nonostante tutto siamo fermi in questo labirinto di dolore creato dalle nostre mani. Fermi, fissi, non funzionanti, spenti.
C’è una cosa che i somali di tutto il mondo, dal Minnesota al Yorkshire, dalla Toscana alla Renania fanno: il faddi ku dirir, la guerra da seduto. Ci si ritrova per parlare della nostra situazione nei salotti spogli del nostro esilio. Ognuno tiene la sua posizione e non la molla. Ognuno parla con nonchalance delle alleanze e delle armi che ha. Armi che forse non ha usato in vita sua. Ci sono persone partite prima della guerra che conoscono a menadito i diametri delle pallottole, però non hanno mai sparato. Mai ucciso, mai visto morire. Ma il faddi ku diriir ha le sue regole, partecipano tutti e stranamente chi non ha mai visto la guerra è quello più violento. Prendono sussidi statali o fanno lavori normali. Poi la sera ci si attacca a internet. Surfiamo tutti su Hiraan, Merkaaddey, Bravanet, Bartahama.com, visita di rito alla vignetta di Amin Amir (te lo abbiamo fatto vedere il Vauro somalo, ha il tratto tagliente come una lama quell’uomo). Destino comune dei somali, ricchi e poveri, surfare e farsi travolgere dalle onde che ti arrivano sul capo come macigni. Non capiamo le notizie, ci travolgono e basta. Poi si nel faddi ku dirir si parla molto e spesso a vanvera. “Beh” ti dice uno “non sono contento di stare sotto questo ombrello, ma loro mi hanno dato la protezione. Ora mi posso salvare il culo. Ho qualche A-47. Prima non avevo nulla. Certo non mi hanno dato delle Tecniche, ma ci arriverò. Quando arriveranno i miei nemici gli aprirò il culo. Prima cos’ero? Pagavo il pizzo! Meglio questi che si coprono le mie donne, ma insomma meglio coprire loro che perdere la terra”. L’altro invece si bea di avere una cassa di soldi dall’Occidente e dirà “Noi vogliamo la nostra autonomia regionale. Siamo ricchi e crediamo nei diritti umani. Non vogliamo mischiarvi con le vostre squallide faccende del sud. Stiamo bene e abbiamo la pancia grossa. E poi noi le armi le facciamo, mica le elemosiniamo come voi”. Ma poi scopri che in quell’angolo di Somalia nessuno rispetta i diritti umani, forse non coprono le donne, ma tagliano i genitali agli uomini. Chi non ha niente guarda chi ha e sogna di avere qualcosa per poter anche lui uccidere, massacrare, dominare. Ognuno guarda al più debole, ognuno prima soffoca quello e si rafforza per poi vedersela con il più grande. Ma bada bene è un faddi ku dirirr sono parole da seduti. E alla fine finisce il tempo. Si deve ritornare a casa della mogli o dai mariti. La guerra di parole è finita. Ci si da pacche sulle spalle e si chiedi “ma che fanno stasera su Channel 4 o meglio vedere al jazeera? Sulla nostra Universal TV fanno vedere il consiglio dei soldati e quello a cui hanno tagliato la mano. Sono indeciso. Mi consigli?”. Il tuo nemico del faddi ku dirrir ritorna ad essere una persona. Ma solo per poco. Nelle mura di casa la Tv viene accantonata e si comincia a fare giri di telefonate planetarie. “Ma lo sai che tal dei tali avrà un carico di armi?” e si comincia di nuovo a parlare, parlare, parlare. E il niente si fa più devastante. Poi non è raro vedere qualcuno di questi che sono immigrati all’estero che poi fanno un po’ di soldi e si trasformano in signorotti di guerra, in sanguisughe e avvoltoi. E i figli crescono male, senza conoscere i padri persi in una guerra che anche loro non capiscono un granché.
Quando l’angoscia mi sovrasta penso alle parole di Obama in Ghana: Il futuro è nelle vostre mani. Africa rimboccati le mani e potrai farcela.

Ogni tanto cercano di riportarla in vita questa Somalia del niente, sono stati tanti i tentativi di farla respirare di nuovo, ma sa non è mica facile ridare la vita ad un paese morto. Noi non siamo sicuri che si può fare. Ma ecco non ci costa niente crederlo. Per questo crediamo che magari forse un giorno chissà succederà. La vita è strana. Se una giraffa può volare, allora la Somalia può rinascere.
Si ci dobbiamo rimboccare le maniche. E dobbiamo farlo subito. Prima che sia troppo tardi.
 FONTE

Monday 21 September 2009

17 peacekeepers killed in Suicide attack in Somalia

17 peacekeepers killed in Suicide attack in Somalia
Mark Leon Goldberg - September 18, 2009 - 10:23am

This is a truly terrible development. Suicide bombers used white cars with UN markings to gain entry to an AMISOM base in Mogadishu. Dozens of people, including 17 African Union peacekeepers and the deputy force commander were killed in the attack. AMISOM is a force of about 5,000 troops from mostly Burundi and Uganda, which is the only international force trying to bring a semblance of stability to Somalia.

Here is Ban Ki Moon's statement:

I am shocked and outraged by the reported suicide attack against AMISOM Force Headquarters in Mogadishu today. The attack has reportedly killed or wounded a number of AMISOM troops including at the command level.

AMISOM is in Mogadishu to help end the conflict that has ravaged the country for the last 20 years, and for a better future in which all Somalis can live in peace and security.

We – the United Nations – remain committed to continuing to work with the Transitional Federal Government and the Somali people to facilitate reconciliation and the political process, build Somali security and rule of law institutions and provide humanitarian assistance. The United Nations stands by the African Union and AMISOM and will continue to support AMISOM's deployment and operations. UN resources from neighboring peace operations are on standby to assist the African Union to respond to the incident today as required.

I condemn in strongest possible terms this entirely unacceptable attack on those who are there to help foster peace and I call upon all Somalis to renounce violence and to work with the Transitional Federal Government towards national reconciliation.

I express my sincere condolences to the families, the contingents and Governments of those who lost their lives and my sympathy for those who have been wounded.
http://www.undispatch.com/node/8889

Saturday 19 September 2009

CAMORRA: UN ANNO FA LA STRAGE DI CASTEL VOLTURNO


Un agguato che non aveva precedenti per ferocia e determinazione nella storia degli agguati messi a segno dalla camorra e che provocò la reazione della comunità africana degenerata in una lunga serie di atti di vandalismo. Il 18 settembre del 2008, sei immigrati africani - di Ghana, Togo e Liberia - furono ammazzati a Castel Volturno (Caserta) da un gruppo di Casalesi, guidato da Giuseppe Setola, che armato di kalashnikov e pistole spararono all'impazzata davanti ad una sartoria gestita da un africano.Un eccidio, secondo gli inquirenti, motivato dal fatto che gli africani avevano deciso di gestire in proprio il traffico di droga senza più sottostare alle regole imposte dal clan, un atto di ribellione che non poteva essere accettato dai casalesi.


Una strage in cui è possibile che un paio di immigrati siano morti solo per essersi trovati nel posto sbagliato. "La strage di Castel Volturno è stato un episodio nero - ha detto il comandante provinciale dei carabinieri di Caserta, colonnello Carmelo Burgio - oggi i responsabili sono tutti in carcere. La partita non è conclusa, ma il periodo di Setola e company è finito". Anche se, le radici che i clan hanno messo nel territorio non sono ancora state divelte. "La camorra è un fiume carsico che agisce in profondità e che ricomparirà non appena si attenueranno i controlli delle forze dell'ordine", sostiene il sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo. E, ad un anno dalla tragedia, è opportuno ricordare l'ondata di indignazione civile che quell'eccidio suscitò, dice l'assessore regionale all'istruzione della Campania, Corrado Gabriele.Il 18 settembre i sei immigrati africani saranno ricordati nel corso di una cerimonia, in programma nel luogo della strage, alla quale è prevista la partecipazione di autorità, cittadini ed di una larga rappresentanza di associazioni antirazziste. "Per non dimenticare uno degli atti più odiosi mai verificatisi in questa regione, nei confronti degli immigrati", ha sottolineato in una nota Mimma D'Amico, responsabile della comunicazione del Centro sociale ex canapificio di Caserta, che opera da anni a favore degli immigrati. Perché la strage e le manifestazioni di guerriglia urbana che sono seguite, hanno anche contribuito ad acuire il contrasto tra la popolazione locale e gli immigrati rendendo la convivenza difficile.


"Castel Volturno non è una città razzista - ha spiegato il sindaco - ma c'é una forma di malcontento per la presenza massiccia di immigrati clandestini sul territorio".Per Prosper, ghanese di Castel Volturno attivista del Movimento dei Migranti e dei Rifugiati "i lavoratori immigrati, sono gli stessi lavoratori stagionali che raccolgono pesche, arance, patate, pomodori e che vengono licenziati dalle fabbriche perdendo lavoro e permesso di soggiorno".Alla cerimonia sarà anche presente una larga rappresentanza di Libera. "Ad un anno di distanza saremo sul luogo della strage - sottolinea Valerio Taglione, referente provinciale dell'Associazione di don Ciotti - per difendere la memoria e la dignità delle sei vittime e per chiedere giustizia a partire dal riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno".

Thursday 17 September 2009

AFRICAN RELIGIOUSITY IN DIASPORA

AFRICAN RELIGIOSITY IN THE DIASPORA:
Caribbean Experience
George Mulrain

The African presence in the Caribbean region dates back to the fifteenth century. The original inhabitants were Amerindian tribes of Caribs and Arawaks. It is from the name Carib that we get the term Caribbean. These indigenous people were virtually wiped out by European invaders and replaced by slaves to supply labour needs for the sugar plantations. Historical research based on the period of slavery indicates that the new settlers were mainly drawn from West Africa. According to Curtin (1969), they came chiefly from eight coastal regions: Senegambia including modern day Gambia and Senegal; Sierra Leone; the Windward Coast, including Liberia and the Ivory Coast; the Gold Coast, chiefly modern day Ghana; the Bight of Benin, including "Dahomey" and present-day Togo; the Bight of Biafra, including the Niger, Cross and Duala rivers; Central Africa, corresponding with present-day Angola; South eastern Africa, including Madagascar.

To understand the nature of African religiosity in the Caribbean, one has to examine some of the African influenced religions and religious expressions that exist within the region. These include what have often been referred to as retentions or samples of African Traditional Religion. There is Shango, a feature of the Orisha faith in Trinidad and Tobago; Santeria in Spanish speaking Cuba; Vaudou in the French and Créole speaking republic of Haiti. Ras Tafarianism is a religious phenomenon that emerged initially in the 1930s as a Jamaican cult in response to the need for persons within the diaspora to maintain an attachment to the ancestral homeland of Mother Africa.

There are also those religious expressions that bear a strong African flavour and have been heavily influenced by Christianity. Of note are the Spiritual Baptists in Trinidad and Tobago, Saint Vincent and Barbados; Pukkumina and Revivalism in Jamaica. These constitute attempts to adapt the Christian faith to suit African cultural facets. The presence of all these religions and religious expressions has added new dimensions to Caribbean theological understandings. God is perceived as interested in men and women being themselves, as products of their culture, as they seek to respond in worship and service to Him.
The African perception of the universe is one that contains both visible and invisible worlds. This cosmos is spirit filled, with a supreme spiritual being, a number of lesser spirits, human beings and nature. The cynics refer to this cosmology as tainted with animism, by which they mean the attribution of lifelike qualities to lifeless objects. Behind the idea of animistic beliefs, though, is an acknowledgment that truth is not confined to that which is empirically testable. There are spiritual truths. Although not visible, there are spirits pervading the universe. It is equally the case that animists try to understand the reality of God and the invisible world with the help of physical, visible objects. Focusing upon visible objects can be of assistance in the process of meditating upon that which though unseen is real.

Associated with a belief in spirits is a commitment to the idea that the life one enjoys in the visible, physical world is not all. It is possible, through death as a rite of passage, for individuals to be ushered into a new existence in the spiritual abode. Caribbean theologians argue that the cosmological understandings that obtain within African Traditional Religion are in effect an extension of the biblical cosmos. The Bible makes mention of spiritual beings - angels, archangels, good and evil spirits, principalities, powers and forces. According to New Testament writings, one can expect that there is life in the hereafter, itself quite likely a spiritual type of existence.

There is the strong belief that the spirit world is one of power, hence to succeed in life, it is necessary sometimes to make appeals to those in the positions of privilege. Spirit possession is one way whereby the follower of African traditional religion acquires positions of power. It is a means through which the individual, under the guise of a spirit, derives inner strength to perform remarkable feats that could not be performed under normal circumstances. In fact, there is an historical belief that the spirit world, with all its power, acted decisively in favour of Haitians during their struggle for independence against the French. Therein was proof enough about the liberating role of religion. Sometimes one thinks of religion as being merely an agent of social control, when in fact it is a very revolutionary force.

Perhaps chief among the components of African religiosity is an understanding that there is no rigid demarcation between the secular and the sacred. This is particularly so because all life is spiritual, in the sense that they are lived in full glare of the spiritual presence. Because African religiosity is committed to the idea that sacred and secular blend into one, it is not necessary for the individual to put life into different compartments. The individual is allowed to be himself or herself without having to ape persons of other religions or cultures. He or she can make use in worship rituals of the language patterns of everyday life, the musical idioms of the people, including drumming and dancing. Myths, legends, proverbs, symbolism of movements, of colour, of language and of objects are all part and parcel of African religiosity.

It is not always easy for the outsider to ATR to appreciate symbols and symbolism, with the result that some have been negatively critical, referring to African religiosity as superstitious and demonic. African Traditional Religion is an honest attempt by persons to commune and to communicate with the celestial realm. The communication between God and human beings is possible through dreams, visions, spirit possession, prayers, libations, sacrifice, transmigration of souls. An interesting theological debate is whether in attempting to maintain communication links with the spiritual abode, adherents are worshipping or venerating the spirits. In contrast to the view that Africans are worshipping the spirits is the idea that God is worshipped through the spirits. Whatever the dominant opinion, the reality is that worship is a virtual celebration. It involves all the energies that people can summon. It is a worship that posits quite the opposite to Quaker
religiosity, where the emphasis is on silence.

African religiosity subscribes to a God who is not limited but all embracing. John S. Mbiti’s book Concepts of God in Africa helps us to appreciate that there is no one correct way of understanding God. On the contrary, God is perceived by the different peoples of Africa in ways that relate directly to their experience of divinity. God is viewed, for example, as father, mother, creator, ancestor, the one who provides – just to mention a few. The so called modern theological debates that are taking place, especially in the West, about the femininity of God or the liberating intent of God have already been dealt with by Africans. When a Caribbean worshipper within the African Traditional Religious sphere thinks of God as creator, it may include the idea that in the creation, there have been provided all that is needed for men and women to be healthy. For this reason, health and wholeness figure prominently among the concerns of practitioners of African Traditional Religion in the Caribbean. Therein lies a challenge for western medical science to see what benefits might be derived from the use of herbs, folk psychiatry and other insights that derive from African based practices.

African religiosity in the diaspora has altered little. It is true, for example, that African Traditional Religion has been affected by syncretism, so there are equivalences established between the names of African spirits and those of Roman Catholic saints. However, there is a philosophical premise that has emerged and will continue to be genuinely African. It is the positive approach to life that insists that nothing will be a real problem. Jamaicans say "No problem", Haitians say "Bondié bon" ("God is good"). These emphasize a fundamental philosophical belief among people of the Caribbean diaspora that God, the supreme being will always be on their side. As a product of African religiosity, one learns to perceive of the physical world as an ally rather than as an antagonist. And remember, that physical world is not purely secular; it is sacred too.

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BIBLIOGRAPHY

Barrett, Leonard E., The Sun and the Drum: African Roots in Jamaican Folk Tradition, London: Heinemann, 1976
Barrett, Leonard E., The Rastafarians – The Dreadlocks of Jamaica, Kingston, Sangster & Heinemann, 1979
Chevannes, Barry, Rastafari: Roots and Ideology, NY, Syracuse University Press, 1994
Curtin, Philip D. The Atlantic Slave Trade: A Census, Madison, 1969
Hurbon, Laennec, Dieu dans le Vaudou Haitien, Paris, Payot, 1972
Kilson, Martin L. & Rotberg, Robert I., The African Diaspora – Interpretive Essays, Cambridge, Harvard University Press, 1976
Mbiti, John S. Concepts of God in Africa, London, SPCK, 1982
Moorish, Ivor, Obeah, Christ and Rastaman, Cambridge, James Clarke, 1982
Moreno Vega, Marta, The Altar of My Soul: The Living Traditions of Santeria, New York, Ballanatine Publishing Group, 2000
Mulrain, George, Theology in Folk Culture: The Theological Significance of Haitian Folk Religion, Frankfurt, Peter Lang, 1984
Murrell, Nathaniel S., Spencer, William D., and McFarlane, Adrian A., eds, Chanting Down Babylon – The Rastafari Reader, Philadelphia, Temple University Press, 1998
Sankeralli, Burton, ed., At the Crossroads: African Caribbean Religion and Christianity, Trinidad, CCC, 1995
Simpson, George Eaton, Black Religions in the New World, New York, Columbia University Press, 1978
Thomas, Eudora, A History of the Shouter Baptists in Trinidad and Tobago, Trinidad, Calaloux Publications, 1987
source

Wednesday 16 September 2009

STOP MGF

Mai più mutilazioni genitali femminili

“In Italia sono circa 90mila le donne immigrate che hanno subito le pratiche della mutilazione
genitale femminile (MGF), diffuse in 28 paesi africani, in Medio Oriente e nel sud est asiatico.
Inoltre esiste un alto rischio che le figlie di queste donne, bambine e adolescenti, subiscano tali
pratiche nel corso della loro permanenza in Italia o durante un periodo di vacanza nel paese
dei genitori”. Questi i risultati presentati da Pilar Saravia, presidente dell’Associazione NoDi – I
nostri diritti - a conclusione del progetto STOP MGF, finanziato dal Dipartimento per le Pari
Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Le vittime di queste pratiche, supportate nel nome della tradizione, sono soprattutto bambine
tra i 4 e i 15 anni: l’età a rischio è soggetta ad un graduale abbassamento per evitare
eventuali resistenze da parte delle stesse bambine, che, una volta adulte, subiranno con gravi
conseguenze psicologiche sofferenze fisiche provocate da malattie, rapporti sessuali dolorosi,
infertilità, infezioni e parti pericolosi.
L’Associazione NoDi, che da anni s’impegna in azioni concrete per il rispetto della dignità della
donna immigrata in Italia, ha affrontato il difficile tema delle mutilazioni genitali femminili
attraverso una campagna di sensibilizzazione e di prevenzione tra la popolazione migrante,
proveniente dai paesi a rischio e insediata nella Regione Lazio.
Il progetto STOP MGF, iniziato nel febbraio 2007, si è sviluppato attraverso tre fasi: formazione
degli operatori socio sanitari, curata dal San Camillo – Forlanini, ricerca del fenomeno,
realizzata dall’IRPPS-CNR, e sensibilizzazione/prevenzione delle comunità interessate, seguita
da NoDi.
In venti mesi l’associazione NoDi ha mappato i luoghi d’incontro e dei servizi utilizzati dalle
comunità a rischio sul territorio laziale, ha incontrato i mediatori culturali, ha prodotto e
distribuito materiale cartaceo sul tema. Ha quindi realizzato incontri di sensibilizzazione e
informazione con gruppi di vittime o a rischio di MGF nelle cinque province laziali per un totale
di 800 donne. Infine ha realizzato il sito d'informazione http://www.stop-mgf.org/ che ospita anche un forum per lo scambio di esperienze.
Se nel parlare dell’argomento la prima reazione delle donne coinvolte è la diffidenza, la parola
chiave per rompere il silenzio è quella della salute, un diritto garantito dalle leggi nazionali dei
paesi a rischio, che tendono a contrastare tali pratiche pur trovando grandi difficoltà nella loro
applicazione, soprattutto nel contesto rurale.
In Italia le MGF sono un reato punibile con il carcere (Legge 9 gennaio 2006 n. 7): l’obiettivo è
quello di scoraggiare l’uso di queste pratiche nella società italiana
.


INFO
http://www.stop-mgf.org/

UFFICIO STAMPA:
email maipiumgf@gmail.com
Maria de Lourdes Jesus cell 3391737455
Ilaria Marchetti cell 3381917190
Francesca Vitalini cell 3393390878

Wednesday 9 September 2009

SANDRINE NGALULA MUBENGA

Une jeune savante de la RDC, Sandrine Ngalula Mubenga, se voit décernée le trophée « Nkoyi Mérite » à WashingtonKinshasa, 31/08/2009 / Politique
La voiture électrique qu'elle avait inventée est déjà sur le marché. Le sénateur de OHIO et le gouverneur de cet Etat ont eu l’occasion de féliciter la jeune congolaise pour ses prouesses.
Sandrine Mubenga, une compatriote résidant aux Usa, a été honorée par la communauté congolaise basée à Washington DC du trophée « Nkoyi Mérite » de l’année 2009 pour avoir abattu un travail de professionnalisme d’ingénieur en électricité. Pendant la cérémonie de remise de cette récompense, les organisateurs n’ont pas caché leur fierté de voir une jeune femme congolaise parvenir à fabriquer un véhicule qui roule sur l'hydrogène. Au regard de ce travail de titan, la communauté congolaise considère l’heureuse lauréate comme une femme modèle congolaise qui est entrée dans l’histoire du monde dans le secteur de la technologie moderne. C’est l'ambassadeur de la République Démocratique du Congo en Rdc qui a remis en personne le prix ainsi que le trophée pour le travail réalisé. C'est là une étape très importante pour Sandrine Mubenga qui voit ses mérites reconnus. Un parcours digne d’élogesCe n’est pas la première fois que Sandrine Ngalula Mubenga se fait remarquer par ses prouesses scientifiques et épate un large public avisé par ses inventions. En effet, il nous revient des sources familiales qu’après avoir vécu dans plusieurs pays (RD Congo, France, Belgique, Sénégal), à l’âge de 12 ans Sandrine Mubenga s’est retrouvée à Kikwit au Bandundu. La cité de Kikwit n’avait à cette époque ni eau ni électricité. Ceux qui le pouvaient devaient acheter un groupe électrogène pour avoir du courant. Et voilà qu’à l’âge de 17 ans, Mubenga tombe gravement malade et devait être opérée d’urgence. Malheureusement, l’hôpital Générale de Kikwit n’avait pas de carburant pour démarrer le groupe électrogène et opérer la malade. Pendant trois jours d’attente, la vie de Mubenga dépendait du courant électrique. Sandrine Mubenga considère son opération comme une chance et une bénédiction car d’autres personnes meurent à cause de ce manque d’électricité. C’est à ce moment-là que Mubenga réalisa la nécessite de l’électricité et décida de faire quelque chose pour changer la situation. Au 21ème siècle il est inadmissible de mourir à cause du manque d’électricité. Mubenga décidera donc de devenir ingénieure. En 2005, elle obtient avec sa Licence en Génie électrique de l'Université de Toledo de l’Etat de Ohio. Sa persévérance au travail académique lui fera remporter plusieurs bourses et prix en plus de quelques apparitions dans les journaux américains tels Toledo Blade, UTNews. En dernière année de Licence, elle se fera plus remarquer par l’invention qu’elle réalisera d’un système solaire portable qui procure de l'électricité à partir d'un panneau solaire. Passionnée par les énergies alternatives et renouvelables, elle poursuit une formation pour créer et intégrer les systèmes solaires photovoltaïques. En travaillant pour Advanced Distributed Generation, le plus grand installeur de système solaire dans le Midwest américain, elle a l'occasion de faire le design et installer plusieurs systèmes solaires dans la ville de Toledo à Ohio. Apres sa Licence, Mubenga travaille à la compagnie d'électricité First Energy dans le système de distribution où elle est ingénieure dans le groupe de planification pendant un an. Toujours passionnée par les énergies alternatives, Mubenga rentre aux études pour poursuivre une Maîtrise en Génie Electrique dans la spécialisation de Puissance, sous l'aile de Dr. Stuart, un professeur connu dans le domaine et qui détient plusieurs inventions reconnues à son actif. A côté de cet éminent scientifique et pour sa recherche, Mubenga fait une démonstration sur les technologies d'énergie alternative. Elle rend une voiture électrique hybride en intégrant une pile à combustible à hydrogène. La voiture créée roule en utilisant l'hydrogène comme carburant et le courant direct. Il s’agit d’une voiture qui ne pollue pas et dont le seul déchet est l'eau pure. En effet la pile à combustible utilise le gaz hydrogène et l'air pour produire du courant direct. Ce courant est ensuite utilisé par un moteur électrique qui fait tourner les roues d'une voiture. Dès lors que cette voiture roule à partir d'hydrogène, la deuxième partie du Project consiste à générer cet hydrogène. Mubenga fait le design d'une station génératrice d'hydrogène avec pompe à hydrogène. La station est constituée d'une machine a électrolyse qui prend de l'eau et la décompose en hydrogène et oxygène. La station est alimentée par un système solaire qui produit de l'électricité. La voiture peut donc rouler jusqu'à la station et faire le plein d'hydrogène. Tout le système - des panneaux solaire jusqu'a la voiture - ne produit pas de pollution, pas de gaz carbonique. Il est silencieux et utilise les énergies renouvelables, notamment le soleil et l'hydrogène. Cette recherche est financée par le Département d'Energie Américain et le Département de Développement de l'Etat de Ohio. Sandrine Mubenga a déjà réalisé dans le même cadre un plan pour électrifier tous les villages de la RD Congo par l’énergie alternative. La jeune inventrice a, par ailleurs, réussi le test de certification nationale pour l'Etat de Ohio où elle est officiellement inscrite comme Ingénieure. Le Sénateur de OHIO et le Gouverneur de l'Etat ont même eu l’occasion de féliciter la jeune congolaise pour ses prouesses. Ngalula Sandrine Mubenga a épousé un compatriote, Fidele Lufungulo. Ensemble ils ont deux charmants enfants.A l’heure où la Rdc devient un vaste chantier de reconstruction, le cas de cette inventrice mérite de retenir l’attention. Ce ne sont pas les talents qui manquent à la RD Congo, mais simplement la volonté politique.(CKD/TN/GW/PKF)MMC/Digitalcongo.net

CASTER SEMENYA....NEW LOOK


Embattled track star Caster Semenya gets new coach, new look
By Chris Chase
It's been a week of change for Caster Semenya, the South African runner at the center of a gender controversy at last month's world track championships.
First, one of her South African coaches quit the team in shame for not telling Semenya that she was being subjected to gender tests. (Semenya had thought she was taking a doping test.) Then, Semenya appeared on the cover of South Africa's You magazine with a complete makeover designed to silence critics who insist she is a man.
For the shoot Semenya sported a less ambiguous hair style, a designer black dress, jewelry, makeup and nail polish. Despite what you think about the whole situation, it's safe to say that this is the first time that Semenya has truly looked like an 18-year old woman.
She says she likes the look too. Semenya told the BBC:
"I'd like to dress up more often and wear dresses but I never get the chance.
I am who I am and I'm proud of myself."
Let's hope this is what she wants though.
Nothing Semenya has done in the past month has suggested that she likes to wear dresses, get manicures and let down her hair. After the controversy broke, she kept her cornrows, wore baggy clothes and pounded her chest in victory like a college football cornerback. When she returned to her hometown, she was dressed the same way. There's absolutely nothing wrong with that. That seemed to be Semenya's natural inclination. This feels forced.
Hopefully I'm wrong. But if Semenya was pressured to do this to silence her critics, then this is a sad story rather than one of retribution. The opinions of a few jealous coaches shouldn't have an effect on how an 18-year old carries herself. If Semenya wants to wear dresses then she should. But if she wants to run around in track suits, what's the problem with that?
The coach who resigned wasn't Semenya's personal coach, but a middle distance supervisor on the South African team who was ashamed that Semenya was kept in the dark about the growing controversy. Wilfred Daniels said he was told the issue was supposed to stay private

Tuesday 8 September 2009

ENERGIA DALL'AFRICA


Congo, la diga di King Kong che vale 23 centrali nucleari
Doppiata la portata d'acqua della diga delle Tre Gole in Cina (foto)

Costerà 56 miliardi, porterà un fiume di elettricità fino all'Europa

LUIGI GRASSIA

TORINONella sfida al colossale l’Africa può battere tutti, persino la Cina. Il Congo ex belga, cioè l’ex Zaire, quello con capitale Kinshasa, sta per costruire un sistema di dighe - che si chiamerà Grand Inga - con una potenza quasi doppia della famosa diga delle Tre Gole in Cina: addirittura 39 mila MegaWatt, cioè l’equivalente di 23 centrali nucleari del tipo più grosso che ci sia al mondo (l’Epr di Flamanville di Edf-Enel). Anche le spese di costruzione sono elefantiache: 56 miliardi di euro messi a disposizione dalla Banca mondiale, dalla Banca europea per gli investimenti e da alcune altre istituzioni. Ventitré supercentrali nucleari di modello Epr eccedono di molto le necessità di un Paese come il Congo, perciò si sta già progettando un sistema di cavi elettrici che da Grand Inga porterà l’energia fino al lontano Sud Africa, e nell’opposta direzione alla rete nordafricana, da dove la corrente potrà poi passare in Europa e in Italia. Il risultato di questo progetto-King Kong è che premeremo l’interruttore a Roma o a Milano e la corrente ci arriverà dal Congo. Quest’ultimo sviluppo, a dir la verità, è la parte più controversa del progetto, perché alcuni critici (africani e non) protestano per tanti miliardi di euro destinati teoricamente allo sviluppo dell’Africa e invece dirottati a soddisfare il fabbisogno energetico dell’Europa; ma alla World Bank non accettano obiezioni: «Per finanziare un investimento di 56 miliardi di euro abbiamo bisogno di clienti solvibili» spiegano all’Africa Energy Group della Banca, e solo così si potrà sostenere il più grande progetto di sviluppo mai finanziato e sarà possibile portare la luce elettrica a 500 milioni di africani che ancora non ce l’hanno. Questo è solo uno dei progetti faraonici che riguardano l’energia in Africa. Un altro è il gasdotto da 8,5 miliardi di euro (le firme sono state messe un mese fa) per portare il metano dalla Nigeria all’Algeria e da qui all’Italia e al resto d’Europa. Poi c’è il «Desertec» per ricavare energia dal sole e dal vento nel Sahara e convogliarla in Europa, un progetto magnifico che però costa 400 miliardi di euro e quindi chissà quando si farà. E c’è sempre il vecchio petrolio. La nuova frontiera del greggio è proprio il Congo della diga Grand Inga.
L’Eni va alla scoperta del Paese con un mega accordo firmato dal suo numero uno Paolo Scaroni. L’ex Zaire è un Paese tormentato, uscito da guerre civili e da un vasto scontro internazionale sul suo suolo che ha visto coinvolti parecchi Paesi africani, la prima guerra pan-continentale nell’Africa nera. Adesso la Repubblica democratica del Congo (un nome più che altro beneaugurante, perché è chiaro che c’è ancora molto da fare) gode di una certa stabilità e viene considerata una delle nuove frontiere del petrolio e del gas. Ricco di minerali soprattutto nella regione meridionale del Katanga, il Congo non ha prodotto, finora, molti idrocarburi, se non nella piccola zona costiera che si affaccia sull’Atlantico; invece l’Eni andrà a cercare petrolio e gas nell’interno, cioè nell’ansa del fiume Congo (Cuvette Centrale) e nell’Est: la zona dei Grandi laghi, in particolare il lago Alberto, e quella del Nord Kivu. Proprio dove si è combattuto qualche anno fa.
L’Eni, al pari degli altri giganti mondiali del petrolio, si sta interessando dell’Africa Nera perché, fatta la tara di tutte le sue turbolenze, offre risorse alternative al Medio Oriente e alle sue tensioni continue. Nell’ex Zaire diverse concessioni saranno messe in gara nel 2010. Il Congo ha davvero bisogno di un’attività economica organizzata. Ha 69 milioni di abitanti che fra 25 anni raddoppieranno a 140 milioni.
Per quanto ci si possa inquietare per l’impatto ecologico della ricerca di petrolio e gas in regioni del Congo finora poco toccate dall’industria, se l’economia del Paese non si sviluppa tutti questi nuovi abitanti andranno a distruggere la foresta equatoriale per praticarvi una misera agricoltura di sussistenza, e l’ambiente sarà devastato anche peggio. Uno sviluppo che non sia saccheggio è indispensabile all’Africa e l’Eni ha ottime credenziali. Sicuramente migliori di quelle tanto decantate dei cinesi, che vengono sviolinati come una valida alternativa per lo sviluppo dell’Africa ma in realtà arrivano nel Continente Nero con tecnologie vecchie e inquinantissime, si portano gli operai da casa e in loco non formano nessuno. È probabile che quando se ne andranno lasceranno terra bruciata.