Arbeit macht frei 2.0 - In Libia ancora ricatti e imbrogli contro gli eritrei
di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
Mentre i mezzi di informazione italiani, con l’eccezione dell’Unità, di Raitre e di pochi altri, hanno steso una cortina di silenzio sulla sorte degli oltre 200 eritrei detenuti e abusati nel carcere di Brak, in Libia, una agenzia AFP chiarisce meglio la portata dell’accordo, un vero e proprio “patto leonino” che il governo libico, con la mediazione dell’OIM, avrebbe imposto ad una parte dei detenuti, mentre circa un terzo sembra che ancora si rifiuti di sottoscrivere l’”accordo di regolarizzazione”, che secondo le autorità di quel paese “ li sottrarrebbe alle bande di criminali” trafficanti ovviamente, e conterrebbe addirittura”misure per l’accoglienza e l’integrazione”.
E’ proprio il caso di ripetere, purtroppo, “ARBEIT MACHT FREI”, il lavoro rende liberi. Secondo l’accordo imposto dal governo libico ad una parte degli Eritrei, che probabilmente avrebbe firmato qualsiasi pezzo di carta pur di lasciare il carcere militare di Brak nel quale vengono abusati da giorni,”l’ambasciata eritrea in Libia consegnerà dei documenti, e dunque identificherà, i detenuti” al fine di permettere “a quanti lo desiderano di insediarsi in Libia”. L’insediamento dovrebbe avvenire non certo per libera scelta delle persone ma esclusivamente all’interno di uno dei campi di lavoro socialmente utile che la Libia esibisce con orgoglio per dimostrare il carattere socialista del suo regime. Ma la sorte degli eritrei dispersi in questi campi ed affidati alla rigida organizzazione dei tanti gerarchi libici appare segnata, ed una volta considerati come migranti economici rimane ancora assai alto il rischio che alla prima occasione vengano espulsi nel paese d’origine, dove ad attenderli troverebbero carcere e torture. Il regime eritreo ha buona memoria.
E’ rimasto in ombra in questa soluzione il ruolo dell’Italia, che pure era stata sollecitata dal Commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa ad un “chiarimento” con la Libia sulla vicenda della deportazione degli eritrei da Misurata a Brak.. Come sono rimasti inascoltati i numerosi appelli per un ritrasferimento (resettlement) dei profughi dalla Libia in Italia, come già avvenuto negli anni passati, seppure in poche decine di casi.
Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato, sempre secondo l’AFP, che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche “per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali”. Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione sotto la sorveglianza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Un ruolo di garanzia che cessa quando un migrante non è riconosciuto come rifugiato ma come un comune migrante economico, magari da fare rientrare nel paese di origine alla prima occasione. La soluzione adottata dal governo libico mette “fuori gioco” ancora una volta l’UNHCR che peraltro in Libia ha sempre avuto una limitata capacità di azione.
La stessa agenzia riferisce poi la vera ragione della chiusura della piccola delegazione dell’UNHCR a Tripoli, che aveva riconosciuto lo status di rifugiato a 8.951 persone e ne aveva riconosciuto altre 3.689 come richiedenti asilo. Per il governo libico si trattava invece di “immigrati clandestini”, che “in nessun modo potevano essere considerati come rifugiati o richiedenti asilo” . Ecco perché all’inizio di giugno l’ufficio dell’UNHCR a Tripoli veniva chiuso, proprio perché, a detta delle autorità libiche, avrebbe posto in essere “attività illegali”. Adesso sembrerebbe che sia stata consentita la riapertura dell’ufficio, ma con un mandato limitato soltanto ai casi già trattati in passato. E poi, se tutti i potenziali richiedenti asilo sono considerati come migranti economici, che senso può avere la presenza dell’UNHCR a Tripoli? Una domanda alla quale dovrebbe fornire risposta anche l’Ufficio centrale dell’UNHCR a Ginevra, anche perché la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione di Ginevra.
E’ caduto intanto nel vuoto l’appello del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa Hammarberg che sollecitava l’Italia i ministri Maroni e Frattini a chiarire la situazione con la Libia ed a trasmettere informazioni allo stesso Consiglio d’Europa in merito alla vicenda degli eritrei arrestati in Libia, anche alla luce dei numerosi report di agenzie internazionali che indicavano tra i deportati eritrei trasferiti a Brak ed a rischio di ulteriore deportazione nel loro paese di origine, anche migranti che lo scorso anno “avevano cercato di raggiungere l’Italia per cercare di ottenere uno status di protezione internazionale” ed “erano stati respinti in Libia senza avere la possibilità di inoltrare la relativa domanda”. Probabilmente, come ha detto lo stesso Gheddafi in diverse occasioni, in particolare nel suo viaggio a Roma lo scorso anno, anche Maroni risponderà adesso al Consiglio d’Europa quanto affermato da Berlusconi lo scorso anno, che in Libia non esistono richiedenti asilo, che si tratta solo di migranti irregolari, anzi “clandestini”, e che dunque non ci sono problemi di violazione di norme internazionali.
Questi i fatti, e le menzogne, come sta venendo fuori dalle numerose testimonianze che smentiscono Maroni e confermano che tra gli eritrei deportati a Brak ve ne sono parecchie decine che lo scorso anno l’Italia ha intercettato in acque internazionali, mentre cercavano di raggiungere l’Italia per chiedere asilo, e che ha riconsegnato alle motovedette italo-libiche, che li hanno poi ricondotti nei centri di detenzione come quello di Misurata. Persone che se avessero raggiunto un qualunque paese europeo avrebbero avrebbero avuto diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale.
Ma sta succedendo qualcosa di ancora più grave che i comunicati ufficiali nascondono. La circostanza che la maggior parte degli eritrei trasferiti da Misurata a Brak si stia rivolgendo ( meglio, sia stata costretta con la forza a rivolgersi) al proprio consolato per il rilascio di documenti identificativi, e che questi documenti permetteranno l’inserimento in una “comune di lavoro”, come quelle presenti in Libia, uno degli ultimi baluardi evidentemente del socialismo ( e infatti in quel paese è vietata la proprietà privata della terra), comporta alcune conseguenze assai gravi, che alleggeriscono le responsabilità dei governi e costituiscono la premessa per la dispersione dei duecento rifugiati eritrei, declassati adesso a semplici migranti economici, che il “magnanime” governo libico accetterebbe di “regolarizzare”.
La identificazione di queste persone da parte del governo eritreo le rende ricattabili a vita, anche per le “attenzioni” che questo governo riserva a madri, mogli, figlie e sorelle di quanti tentano la via della fuga all’estero in cerca di asilo. Inoltre avere accettato, meglio essere stati costretti dai libici, con le violenze subite da giorni, a sottoscrivere un “accordo di integrazione” fissa a tempo indeterminato gli eritrei nella comune di lavoro nella quale verranno assegnati,ed impedisce loro qualsiasi futuro riconoscimento dello status di rifugiato, sia per i ricatti che potrebbero subire sui loro parenti in Eritrea, sia soprattutto perché una volta qualificati come migranti economici, e dopo avere chiesto “protezione”, attraverso la richiesta dei documenti identificativi, alla loro rappresentanza diplomatica in Libia, potrebbe ritenersi venuta meno la ragione per riconoscere loro, anche da parte dell’UNHCR, lo status di protezione internazionale.
Un trabocchetto in uso in Italia fino a qualche anno fa, quando ancora non era entrata in vigore la normativa comunitaria attuata con il decreto legislativo n.25 del 2008, consisteva nel chiedere e verbalizzare alle persone appena sbarcate se volessero lavorare in Italia. Tutti naturalmente rispondevano affermativamente, e tanto bastava alle forze di polizia per respingere immediatamente e ritenere infondata la domanda di protezione internazionale, con la successiva adozione di provvedimenti di espulsione o di “respingimento differito”. Un “trucchetto” che il d.lgs n.25 del 2008 ha in qualche modo ridimensionato, togliendo alla polizia di frontiera qualunque potere discrezionale nell’esame della domanda di asilo che adesso è di pertinenza esclusiva della competente commissione territoriale. Ma evidentemente la “formazione congiunta” italo-libica produce i suoi frutti ed ecco che adesso la polizia libica, e il governo che la dirige, hanno imparato lo stesso “trucchetto” che anni fa si praticava in Italia, e in certi casi, come alle frontiere portuali dell’Adriatico, si continua a praticare ancora oggi per impedire ai potenziali richiedenti asilo l’accesso alla procedura.
Per negare tutela e riconoscimento ai potenziali richiedenti asilo basta considerarli e trattarli come “migranti economici”, e dunque “clandestini”, se tentano di accedere al territorio senza i necessari documenti di ingresso e soggiorno. Quello che prima si faceva in Italia, a Lampedusa, adesso si fa in Libia, con l’aggravante che le persone vengono trattenute in condizioni disumane, esposti a continui abusi, cosa che capitava e capita anche in Italia, ma certamente non ai livelli di “raffinatezza” della polizia libica. La scelta di passare per migranti economici, e dunque di “regolarizzarsi” per andare a lavorare come schiavi, potrebbe dunque apparire per gli eritrei di Brak l’unica via per porre fine a giorni interminabili di torture e soprusi di ogni genere. E chissà che fine faranno quelli che non firmeranno questi “accordi di integrazione”, e i tanti che sono stati feriti e che vengono ancora picchiati se solo chiedono di essere curati.
L’accordo di “integrazione” e dunque la “regolarizzazione” forzata, con l’avvio degli eritrei ai “campi di lavoro socialmente utile”, ha altri importanti risvolti che certo faranno dormire sonni più tranquilli ai nostri ministri che da anni negano la presenza in Libia di richiedenti asilo e giustificano anche in questo modo i respingimenti collettivi in acque internazionali, praticati con tanto successo, prima dalle nostre unità navali, in particolare dalla Guardia di finanza, ed adesso subappaltati ai mezzi navali donati ai libici. I quali non hanno certo problemi di doversi adeguare agli scomodi standard dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani, e alla Convenzione di Ginevra, soprattutto per quanto concerne il divieto di respingimento (refoulement) affermato dall’art.33 della stessa Convenzione. E infatti, se di migranti economici si trattava, e dunque di irregolari, o di “clandestini”,che magari avrebbero attentato alla “sicurezza” degli italiani, anche nel caso di somali ed eritrei, come di nigeriani o togolesi, ben potevano giustificarsi sia le retate a terra che la polizia di Gheddafi ha intensificato proprio a partire dagli accordi con l’Italia, quanto i respingimenti collettivi in acque internazionali, senza alcuna identificazione, vietati dall’art.4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’auomo e dall’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, documenti che evidentemente sono carta straccia non solo per la Libia ma anche per l’Italia.
Chiediamo ancora una volta che la Corte Europea dei diritti dell’uomo pronunci finalmente la sua sentenza per i respingimenti collettivi in Libia praticati il 6 e 7 maggio del 2009 dalla nave Bovienzo, altrimenti se passerà ancora del tempo, dopo fatti come la deportazione da Misurata, dei ricorrenti non ne resterà più traccia.
Attendiamo adesso con angoscia crescente altre notizie sulla sorte dei profughi eritrei, anche dopo la loro “liberazione”, magari per conoscere le tappe della loro “integrazione” in Libia. E vorremmo anche avere notizie al più presto sulla sorte dei numerosi feriti di Brak e delle donne e dei bambini rimasti a Misurata, come delle migliaia di migranti che la Libia continua a trattenere nei propri centri di detenzione, ancora inaccessibili, a parte qualche “visita guidata”, usata come al solito per ingannare l’opinione pubblica internazionale, o almeno quanti si accontentano delle liturgie sulla sicurezza recitate dai ministri sulla pelle di persone esposte giorno per giorno a detenzione illegale e ogni sorta di trattamenti inumani o degradanti.
Vorremmo anche che l’OIM e l’UNHCR chiarissero il senso della loro attuale presenza in Libia, magari facendo sapere quali garanzie sono previste perchè non venga coartata la scelta verso i cd.”rimpatri volontari” e quale sorte attende coloro che ancora si trovano in quel paese e sarebbero nelle condizioni di fare valere il diritto di asilo o un altro status di protezione internazionale in un qualunque paese che aderisca, a differenza della Libia, alla Convenzione di Ginevra.
http://www.meltingpot.org/articolo15697.html