Saturday 26 September 2009

La nostra Somalia era. La nostra Somalia forse sarà.

La nostra Somalia era. La nostra Somalia forse sarà.

La nostra Somalia era…
Era…cosa aggiungere di più?
Era, esisteva, respirava, amava.
Era qualcosa quindi. Come lo sono oggi il Senegal, la Francia, il Venezuela. Aveva strade, elettricità, acqua potabile, monumenti, scuole. Potevi danzare sulla sua architettura. Era come in quella canzone del rapper somalo-canadese K’naan che dice:

Mogadishu used to be
A place where the world would come to see
Jaziira, sugunto liida, wardhiigleey iyo Madiina
Hargeysa, Boosaaso, Baardheere iyo Berbera
My skin needs to feel the sand, the sun
I’m tired of the cold, god damn soobax
Poi un giorno è morta.
La data ufficiale Gennaio 1991 quando il vecchio dittatore Siad Barre (conosciuto da tutti come Boccagrande per la sua voracità) ha lasciato Mogadiscio per sempre.
Ma le date ufficiali non contano. La Morte celebrale risale a molto prima, al 1978 forse. È in quell’anno che il popolo somalo ha capito che Siad Barre dava nomi di sogno a degli incubi stratificati. Erano nomi che servivano a rendere la dittatura bella da guardare.
Il popolo frustrato cominciò in quella data a morire poco a poco.
La Somalia oggi dopo Boccagrande, dopo una guerra inspiegabile, è ufficialmente morta.
A Dir la verità oggi è improprio parlare di Somalia. Quando la si nomina dobbiamo avere tutti la consapevolezza che stiamo nominando qualcosa che non esiste più.
È morta. Ma ecco basta questa parola, morta, per decifrare l’inspiegabile rebus della Somalia?
Comunque una cosa è certa non è ancora risorta la disgraziata.
Nel frattempo è diventata un mostro, una anomalia, uno zombie. È morta, ma continua a vivere. Non c’è lo stato, ma il resto funziona…a volte anche molto bene. Basti pensare al business delle rimesse dei migranti che arrivano in quella nazione distrutta con la rapidità che ci si aspetterebbe per un invio du denaro a Londra o a Parigi.
Quindi la Somalia, per riassumere, è morta, è diventata un mostro e non si sa bene se la poveretta avrà una resurrezione.
Ma come può averla se tutti litigano? Ti dicono tutti, ricchi e poveri, che e’ questione di identità e non cedono. Ti dicono “sei proprio stupido se pensi che gli altri cederanno. La pace non esiste, dolcezza. Esiste solo questa cosa. Devi combattere dolcezza perché così è scritto”. E tutti a rifugiarsi sotto l’ombrello di una causa persa. Uno dice tu sei un venduto, l’altro dice sei un terrorista. I clan dicono io mi devo difendere, devo sopravvivere. I più grandi vogliono regnare, i più piccoli hanno paura di diventare come il dodo un animale estinto. Allora si accettano compromessi. Chi i soldi dell’Occidente, chi i soldi di un uomo dalla barba lunga e canuta nascosto in una grotta chissà dove. Si gioisce per un ferro che scarica pallottole. I clan più grandi li contano avidamente. Dicono “Abbiamo tanti ferri. Al tavolo della riconciliazione sarò io ad avere più potere”. I più piccoli si illudono che i 5 ferretti ottenuti con lacrime e sangue potranno permettere a qualcuno di loro di sedere a quell’ipotetico (molto ipotetico!) tavolo. Non sanno di avere perso tutti. Che quel tavolo a queste condizioni non si potrà mai fare. “Anch’io avrò la mia fetta di torta” gridano tutti. Purtroppo la torta non c’è. Come può esserci se ci sputano ogni giorno sopra? La torta è la nostra terra e non c’è più rispetto per la terra, per i suoi fiumi, per il suo mare, per la sue piante, per le sue bestie. Ma ecco parlare con i nostri concittadini a volte è impresa vana. Continuano a fare proclami e a cambiare faccia a seconda della situazione. Sono labowagile, esseri dalla doppia faccia. Un mese si sta sotto un ombrello, il mese dopo sotto un altro. Quello che un tempo era un paese grande quanto un sogno ora è diventato briciole di paure stratificate. Somaliland, Putland., Jubaaland, Nonsocheland! La verità è che siamo tutti di Zeroland. Alla fine dovremmo cambiare nome, non più somali, ma i fantasmi del paese dello zero, Io cittadino di Zeroland. Perché alla fine è quello che siamo: zero. Ci stiamo cancellando volontariamente. Certo il resto del mondo ci sta dando una mano, ci sono più trafficanti di armi in Somalia che in tutta Europa messa insieme. Poi si sa che la Somalia è ricettacolo di rifiuti tossici e traffici illeciti di vario tipo (non è un caso che si sia sviluppata la pirateria in Somalia. I pirati hanno fiuto, seguono l’odore di marcio dei traffici e del denaro sporco. E in Somalia ahimè c’è marcio a iosa) ma ecco nonostante gli altri, nonostante le armi, i rifiuti, la criminalità organizzata, nonostante tutto mi sento di dire (e me ne prendo la responsabilità) che quello che sta succedendo in Somalia è colpa nostra. Alpha Blondy in una sua nota canzone diceva:
j’insiste, je persiste et je signe les ennemis de l’afrique ce sont les africains,
Mi dispiace dirlo ma è così. Siamo noi gli artefici del nostro destino nefasto.
La delusione più grande io ce l’ho quando guardo la mia diaspora, sia quella di Roma sia quella di Minneapolis o Londra o Stoccolma. Si qui in questo argentato occidente la delusione è senza pari quando vedo che la vecchia diaspora, quella emigrata negli anni ’70, ’80, ’90 è guerrafondaia al pari dei tanti matti signori della guerra che ci sono laggiù. La democrazia non è entrata in circolo. E noi che ci speravamo! Miseria ladra! Ma sai in ognuno di noi c’è attaccata come fuliggine questa anarchia, questa babilonia. Ci scorre nelle vene e non riusciamo a contrastarla. Ci perseguita e noi siamo poca cosa davanti a lei. Perché non riusciamo a cambiare? Non siamo peggio di altri popoli. Sappiamo amare, conosciamo la lealtà, siamo ironici, crediamo in Dio. Nonostante tutto siamo fermi in questo labirinto di dolore creato dalle nostre mani. Fermi, fissi, non funzionanti, spenti.
C’è una cosa che i somali di tutto il mondo, dal Minnesota al Yorkshire, dalla Toscana alla Renania fanno: il faddi ku dirir, la guerra da seduto. Ci si ritrova per parlare della nostra situazione nei salotti spogli del nostro esilio. Ognuno tiene la sua posizione e non la molla. Ognuno parla con nonchalance delle alleanze e delle armi che ha. Armi che forse non ha usato in vita sua. Ci sono persone partite prima della guerra che conoscono a menadito i diametri delle pallottole, però non hanno mai sparato. Mai ucciso, mai visto morire. Ma il faddi ku diriir ha le sue regole, partecipano tutti e stranamente chi non ha mai visto la guerra è quello più violento. Prendono sussidi statali o fanno lavori normali. Poi la sera ci si attacca a internet. Surfiamo tutti su Hiraan, Merkaaddey, Bravanet, Bartahama.com, visita di rito alla vignetta di Amin Amir (te lo abbiamo fatto vedere il Vauro somalo, ha il tratto tagliente come una lama quell’uomo). Destino comune dei somali, ricchi e poveri, surfare e farsi travolgere dalle onde che ti arrivano sul capo come macigni. Non capiamo le notizie, ci travolgono e basta. Poi si nel faddi ku dirir si parla molto e spesso a vanvera. “Beh” ti dice uno “non sono contento di stare sotto questo ombrello, ma loro mi hanno dato la protezione. Ora mi posso salvare il culo. Ho qualche A-47. Prima non avevo nulla. Certo non mi hanno dato delle Tecniche, ma ci arriverò. Quando arriveranno i miei nemici gli aprirò il culo. Prima cos’ero? Pagavo il pizzo! Meglio questi che si coprono le mie donne, ma insomma meglio coprire loro che perdere la terra”. L’altro invece si bea di avere una cassa di soldi dall’Occidente e dirà “Noi vogliamo la nostra autonomia regionale. Siamo ricchi e crediamo nei diritti umani. Non vogliamo mischiarvi con le vostre squallide faccende del sud. Stiamo bene e abbiamo la pancia grossa. E poi noi le armi le facciamo, mica le elemosiniamo come voi”. Ma poi scopri che in quell’angolo di Somalia nessuno rispetta i diritti umani, forse non coprono le donne, ma tagliano i genitali agli uomini. Chi non ha niente guarda chi ha e sogna di avere qualcosa per poter anche lui uccidere, massacrare, dominare. Ognuno guarda al più debole, ognuno prima soffoca quello e si rafforza per poi vedersela con il più grande. Ma bada bene è un faddi ku dirirr sono parole da seduti. E alla fine finisce il tempo. Si deve ritornare a casa della mogli o dai mariti. La guerra di parole è finita. Ci si da pacche sulle spalle e si chiedi “ma che fanno stasera su Channel 4 o meglio vedere al jazeera? Sulla nostra Universal TV fanno vedere il consiglio dei soldati e quello a cui hanno tagliato la mano. Sono indeciso. Mi consigli?”. Il tuo nemico del faddi ku dirrir ritorna ad essere una persona. Ma solo per poco. Nelle mura di casa la Tv viene accantonata e si comincia a fare giri di telefonate planetarie. “Ma lo sai che tal dei tali avrà un carico di armi?” e si comincia di nuovo a parlare, parlare, parlare. E il niente si fa più devastante. Poi non è raro vedere qualcuno di questi che sono immigrati all’estero che poi fanno un po’ di soldi e si trasformano in signorotti di guerra, in sanguisughe e avvoltoi. E i figli crescono male, senza conoscere i padri persi in una guerra che anche loro non capiscono un granché.
Quando l’angoscia mi sovrasta penso alle parole di Obama in Ghana: Il futuro è nelle vostre mani. Africa rimboccati le mani e potrai farcela.

Ogni tanto cercano di riportarla in vita questa Somalia del niente, sono stati tanti i tentativi di farla respirare di nuovo, ma sa non è mica facile ridare la vita ad un paese morto. Noi non siamo sicuri che si può fare. Ma ecco non ci costa niente crederlo. Per questo crediamo che magari forse un giorno chissà succederà. La vita è strana. Se una giraffa può volare, allora la Somalia può rinascere.
Si ci dobbiamo rimboccare le maniche. E dobbiamo farlo subito. Prima che sia troppo tardi.
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1 comment:

Okey.Chukbyke C. said...

"....il faddi ku diriir...." Trieste, ma molto interessante come analizzato