articolo di sabato 10 ottobre 2009
di Giuseppe De Bellis
E' stato premiato per aver promesso molto e non aver ancora fatto nulla. Una decisione imbarazzante, che finirà per danneggiarlo
Il Nobel a priori. Obama vince senza un motivo che non sia l’infatuazione collettiva e globale. Premi Barack e ti senti giusto, perché con lui non si sbaglia. I ruffiani di Oslo. È il sorriso per la stampa che oggi celebrerà l’incelebrabile. Lo sa persino il presidente Usa che questo riconoscimento è arrivato a prescindere. Lo premiano mentre sta per sganciare un’altra bomba al confine tra Afghanistan e Pakistan. Moriranno dei civili, perché sta combattendo una guerra. La pace che gli attribuiscono è lontana ed effimera, mentre le armi che usa sono vere. Cadono, distruggono, uccidono. Non lo fa per gusto, lo fa perché non può fare diversamente, perché potrà avere pace solo se continuerà a fare la guerra. Però il paradosso spiega l’ipocrisia di chi ha regalato un Nobel che sa di adulazione. Dicono che la candidatura sia stata presentata l’11 febbraio, cioè venti giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. È imbarazzante, grottesco, mendace. È la dimostrazione evidente e sfacciata che c’è stato un tavolino con attorno un gruppo di persone convinte di rappresentare il comune sentire. Chi premiamo? E hanno scelto il più scontato, banale, ovvio e al tempo stesso improbabile candidato. Perché questo è un premio al niente. È una scelta poggiata sul vuoto e su un grado di piaggeria sconfinato. Se l’è chiesto anche il suo staff: che cosa ha fatto Obama per guadagnarlo?
È vero, abbiamo visto il premio Nobel per la pace dato a un terrorista come Arafat, uno dato all’ambientalista inquinatore come Al Gore, però non avevamo mai visto il premio all’intenzione. Anzi: il premio alla speranza. Perché quella di Obama è una speranza di pace. Allora non c’è altra spiegazione che il circo mediatico-intellettuale che fa da contorno a ogni mossa del presidente americano. Il giro dei giri, un collettivo della lusinga, la compagnia di chi elogia servilmente. Concedergli la medaglia di pacificatore significava accarezzare i desideri e le convinzioni del mondo che lo circonda, spesso senza voler vedere quello che fa, quello che dice, quello che sceglie. C’è un non detto gigante attorno a Obama, c’è l’illusione che sia arrivato il leader globale che usa le parole al posto delle armi. È la banalità di chi non crede davvero che possa farlo, è la paura di chi è convinto che non sia all’altezza. Gli amici che diventeranno i suoi nemici: gli faranno del male, più di quanto facciano già ora. Barack ha una capacità unica di catturare le folle, ma poi fa politica con lo stesso cinismo degli altri: è la sua forza. Non si dica, però: non sta bene. Gli hanno tagliato un abito su misura che porta con stile, ma con un po’ di falsità: quello del presidente che tirerà fuori l’America e quindi il mondo dalla guerra.
Obama può vincere molte sfide, può sfatare molti pregiudizi, può tenere gli Stati Uniti al comando del mondo, però avrà sempre la zavorra di una claque globale che lo ridicolizza di fronte agli occhi dell’umanità. Il Nobel sguazza in questo intruglio di falsità e di innamoramenti adolescenziali che da un anno e mezzo fanno da contenitore delle uscite, dei viaggi, dei discorsi del presidente. Si proiettano su Obama scelte che non fa, ma che secondo il mondo dei fighetti con puzza sotto al naso dovrebbe fare. Così quando il presidente dice che non tralascia alcuna opzione nella trattativa diplomatica con l’Iran, viene sempre fuori la verità di comodo: «Obama tende il braccio verso Teheran». Il resto è omesso, dimenticato, scartato, taciuto perché non è quello che un presidente democratico dovrebbe dire. E cioè che nessuna opzione significa che c’è la possibilità della guerra, di un’azione preventiva, unilaterale, diretta. Ricorda Bush? Appunto. Perché Barack non ha cambiato di una virgola la politica estera dell’amministrazione precedente. Però a George W. nessuno si sarebbe sognato di dare un premio.
Invece è un po’ come se il Nobel l’avesse vinto anche lui ieri. Blasfemia, per i nemici dell’America, ma amici a prescindere di Obama. Che poi sono la fregatura del presidente Usa, la sua dannazione, il suo peso perenne. Il premio che Barack accetta con classe nasconde insidie, difficoltà, ostacoli. Perché l’amministrazione sta per chiedere al Congresso di mandare 40mila soldati in più a combattere in Afghanistan. Combattere. Quindi uccidere. Quindi morire. Guerra, non pace. Quanto costerà politicamente a Barack? Quanti pacifisti rinvigoriti dalla consegna del Nobel, lo considereranno un traditore? Obama sa che non c’è alternativa alla guerra, non ora. Sa anche che questo è quasi un dispetto di chi non conosce gli americani. Perché oggi noi europei leggeremo i commenti entusiasti dei giornali e dei leader politici, ascolteremo dichiarazioni epocali, sentiremo giudizi definitivi sulla grandezza di Obama. L’America no. L’America criticherà, l’America penserà ad alta voce quello che noi abbiamo solo il coraggio di bisbigliare: perché? Si darà una risposta che qui sarà scartata perché è politicamente scorretta: vince per una lobby mondiale che s’è innamorata di lui, vince perché è nero e ci sentiamo ancora un po’ in colpa, vince perché il Nobel non serve se non a riempirsi la bocca di vuoto. Hanno premiato le parole, la speranza, gli ideali. Hanno glorificato il nulla, hanno tradito anche le aspettative che Obama incarnava: se era questo Barack, se ci basta questo per osannarlo, ci basta poco. E con poco non si fa la storia.